Parliamo di Linfonodi
Una delle situazioni più frequenti in un ambulatorio di ecografia è quella in cui il paziente giunge alla visita perché si è sentito una “pallina al collo”.
Premetto che nella maggior parte dei casi i linfonodi ingrossati del collo sono conseguenti ad una condizione infiammatoria, ovvero ad una infezione, batterica o virale che sia, più raramente ad una patologia autoimmune (ad esempio come risposta ad una tiroidite), e sicuramente ancor più raramente ad un linfoma (tumore maligno delle ghiandole linfonodali).
Il mio paziente modello di solito è un ragazzo o un uomo, che si è sentito generalmente radendosi, una pallina nella regione laterale del collo.
Dopo aver letto tutto quello che poteva leggere sui peggiori tumori che interessano i linfonodi o essersi confrontato con un possibile collega o amico, parente di un paziente che è morto di recente e al quale avevano trovato dei “brutti linfonodi”, finalmente si decide a recarsi dal medico Curante, che generalmente rassicura il paziente ma sa bene che solo un’ecografia potrà veramente tranquillizzarlo, e quindi gliela prescrive.
Diciamo che dopo aver eseguito circa 100.000 ecografie (centomila, ho lavorato per vent’anni in uno dei più famosi ospedali privati convenzionati di Milano maturando esperienza in tutti gli ambiti dell’ecografia), generalmente mi bastano dai due ai tre secondi per capire se un linfonodo è buono o no.
Peraltro l’apprendimento è ancora più veloce quando, dopo aver visto il linfonodo sospetto pratichi da anni agobiopsie o agoaspirati e consegni personalmente al paziente l’esito dell’anatomia patologica del linfonodo che hai biopsiato. Con certezza, in base all’esito, sai se l’idea che ti eri fatto era esatta o no.
Il nostro cervello lavora per analogie, dopo tanti anni, non hai quasi più bisogno di eseguire una biopsia per sapere com’è un linfonodo.
Dico quasi, perché questo è il bello della medicina, nulla è scontato! Ma diciamo pure che nei primi secondi che appoggio la sonda sul collo del paziente so già con una buona approssimazione (almeno per l’85-90%) se mi posso rilassare, o se comincerò a sudare ( dare brutte notizie, nonostante l’esperienza, mi rende ancora nervosa).
Ma partiamo dal caso più semplice e più frequente: trattasi di linfonodo infiammatorio. Uno dei motivi per cui ho dato le dimissioni dall’ospedale in cui lavoravo dopo vent’anni, era perché non avevo più tempo per parlare con i miei pazienti.
Troppe cose da fare, da organizzare, da gestire come si sa succede in questi grandi ospedali. Alla domanda: “come fa Dottoressa a sapere che è un linfonodo buono?” rispondevo seccamente: “perché sono vent’anni che faccio questo lavoro!”. Era una buona risposta per me, ma ora capisco non troppo buona per il paziente.
Oggi, che posso permettermi il lusso di parlare con i miei pazienti, posso spiegare tutte le caratteristiche di quel linfonodo. Posso raccontare i criteri secondo i quali ecograficamente un linfonodo è buono, per esempio per il fatto che sia simmetrico ad uno identico dall’altro lato, posso misurarlo con calma, posso mostrarlo al paziente sul mio grande monitor (l’ambulatorio dove lavoro ha a disposizione un ecografo eccellente) descriverne la forma ovale, misurare lo spessore della sua porzione corticale, apprezzarne il fatto che non confluisca con altri in pacchetti (ovvero non ci siano più linfonodi disposti a formare un grappolo, criterio questo di netta malignità), posso valutarne la vascolarizzazione che è ancora ben rappresentata e ordinata (l’ecografo che utilizzo ha la capacità di campionare anche flussi molto fini)
Insomma posso definirlo benigno in base a tutti i criteri delle ultime linee guida più aggiornate, che adesso non solo leggo, come facevo prima, ma ho anche il tempo di spiegare al paziente in ambulatorio, il quale poi, soddisfatto e tranquillo mi risponde, anziché con uno sguardo inebetito, con un piacevole commento: “Si vede Dottoressa che lei ha passione per quello che fa! Grazie!”.